Che cos’è il trauma

La parola “trauma” in greco significa letteralmente “ferita”.

Il trauma interferisce non soltanto con il sistema nervoso, il corpo e il funzionamento fisiologico, ma anche con psiche ed emozioni.

Il trauma non è costituito dall’evento di per sé, ma da come l’evento è gestito dal sistema neurovegetativo dell’individuo.
Infatti è possibile constatare come il medesimo evento per una persona sia fonte di trauma e per un’altra non soltanto non sia traumatico, ma incredibilmente sia fonte di appagamento, divertimento, gioia. Basti pensare al salto con gli elastici dal ponte: vi sono alcuni che sarebbero disposti a pagare migliaia di dollari se solo potessero saltare dal mitico ponte di Brooklyn, mentre per i più, anche se sono in buona forma fisica, sarebbe un evento traumatico.

La conclusione è che il trauma non dipende dall’evento di per sé, ma dalla grande attivazione del sistema neurovegetativo che è stata necessaria per far fronte all’evento e che in quell’individuo non riesce a scaricarsi a evento concluso.

Se ne deduce che il trauma consegue a un’incapacità di quel soggetto a smaltire la grande attivazione del sistema neurovegetativo. Tale capacità varia da soggetto a soggetto: per una persona un evento può essere traumatico e per un’altra no, è un’esperienza tra le altre che per di più può essere anche appagante.
La capacità a smaltire la grande attivazione del sistema neurovegetativo, che è stata necessaria per attraversare l’evento, dipende soprattutto dal fatto che la persona abbia fatto esperienza in modo progressivo, debitamente accompagnata, ad attraversare eventi analoghi.

Per chiarire torniamo all’esempio del salto con gli elastici legati ai piedi dal ponte di Brooklyn. Se chi lo effettua ha compiuto il training idoneo con un valido istruttore, è in buona forma fisica e l’impresa sia stata debitamente preparata, è molto probabile che tragga grande appagamento dal salto. Se chi compie tale salto è uno sprovveduto senza preparazione, è molto probabile che ne resti traumatizzato.

Un evento analogo a quello che è stato in passato per l’individuo fonte di trauma di solito tende, se non debitamente gestito, a essere ritraumatizzante, perché si tende a riprodurre il medesimo iter nel funzionamento del sistema neurovegetativo. Il sistema neurovegetativo non può tornare a riposo per l’incapacità di quel soggetto di smaltirne la grande attivazione e tale meccanismo con la ripetizione si rinforza. Per fare un esempio, è come nelle strade di campagna non asfaltate in cui il passaggio delle ruote sempre negli stessi punti porta profondi solchi in cui si sprofonda ogni volta più.

Ne consegue che piccoli traumi simili ripetuti possono diventare un grave problema. Questo vale anche per i traumi causati da distacchi.
La grande attivazione che resta nel sistema neurovegetativo a seguito di un trauma interferisce col funzionamento del sistema neurovegetativo stesso e da qui ha conseguenze sulla fisiologia, sul corpo, sulle emozioni e sulla psiche.
L’uomo nel trauma è implicato globalmente anche se l’evento, causa del trauma, ha apparentemente implicazioni solo fisiche. Per esempio, un incidente con ferite e fratture ha implicazioni anche emozionali e psichiche.
Anche traumi apparentemente non fisici, come il distacco da una persona cara con la fine di una relazione amorosa o in caso estremo con la morte, hanno implicazioni non solo emozionali e psichiche, ma anche fisiche.
In conclusione nell’uomo il trauma coinvolge il sistema neurovegetativo, la fisiologia, il corpo, le emozioni e la psiche.

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Trauma e sistema neurovegetativo

Elaborare il trauma è cosa che l’esperienza e la saggezza insita nell’uomo possono arrivare a compiere anche senza conoscere in dettaglio come funziona il sistema neurovegetativo, per cui se trovate ostica la spiegazione riguardo al sistema neurovegetativo che qui segue, non fatevene cruccio e proseguite nella lettura.

Il sistema neurovegetativo ci permette di vivere regolando i battiti del cuore, la pressione sanguigna, la respirazione, le funzioni digestive, assimilative, escretive, secretive, le funzioni sessuali, solo per citare le più importanti, ovvero tutte quelle che vengono chiamate “funzioni vegetative”. Queste funzioni vitali sono dipendenti dalla parte più profonda e più antica del cervello, in comune con tutti gli animali.

Il sistema neurovegetativo si compone del sistema simpatico e di quello parasimpatico.

La vita si svolge in una continua alternanza tra il sistema neurovegetativo simpatico e il parasimpatico, i quali sono deputati a funzioni opposte: trattenere l’urina oppure emetterla, stringere i vasi sanguigni oppure dilatarli, accelerare il battito cardiaco oppure rallentarlo, ecc., secondo le necessità del momento. Se la fluidità tra i due sistemi è buona a evento concluso si ha una sensazione di appagamento, di soddisfazione, la sensazione “di aver fatto proprio una bella cosa”.

I sistemi neurovegetativi sono implicati nelle risposte che l’organismo ha di fronte a una minaccia. Queste risposte furono ampiamente studiate da Henri Laborit (1914-1995) chirurgo, biologo e studioso del comportamento animale e umano. Egli identificò fondamentalmente tre risposte: la lotta o la fuga e la perdita dei sensi.

Il sistema simpatico è quello che ci permette la risposta di lotta o quella di fuga. Sia per la lotta che per la fuga abbiamo bisogno di mobilizzare una grande quantità di energia per combattere nella lotta o per correre nella fuga: il cuore batte più veloce, la pressione arteriosa aumenta, i vasi sanguigni dei muscoli si dilatano in modo da fornire a essi più energia, mentre quelli del sottocutaneo, dei visceri addominali e dei genitali si contraggono per non disperdere energia in aree non implicate nell’immediata sopravvivenza e, grazie all’adrenalina prodotta, aumenta lo zucchero nel sangue pronto per essere bruciato e produrre nuova energia.
La funzione del sistema parasimpatico è invece connessa con la terza risposta di fronte al pericolo, secondo Laborit, che può culminare con l’anestesia e la perdita dei sensi. L’animale che sta per essere sbranato, proprio per salvaguardarsi, si anestetizza e perde i sensi. Il sistema parasimpatico rallenta i battiti cardiaci, abbassa la pressione arteriosa, stimola le funzioni dei visceri in cui aumenta anche il flusso sanguigno.

Se l’attivazione di uno dei due sistemi neurovegetativi, che è stata necessaria in un evento della vita, non si scarica completamente a evento concluso, questa grande attivazione non smaltita persiste nel sistema neurovegetativo che non si è scaricato e dà origine al trauma.

Dei due sistemi neurovegetativi quello che dopo l’evento originario non ha smaltito la sua energia si troverà iperattivato:
– l’attivazione del simpatico darà tachicardia, agitazione, sudorazione fredda, accelerazione della capacità ideomotoria e si tenderà a restare svegli;
– l’attivazione del parasimpatico darà bradicardia, diminuzione della pressione arteriosa, accentuazione delle funzioni viscerali, sonnolenza.

Il sistema neurovegetativo rimasto attivato non permette il passaggio verso l’altro sistema neurovegetativo e, di conseguenza, sregola il funzionamento neurovegetativo dell’organismo.

La vita, alla lunga, non è possibile senza l’alternanza tra i due sistemi neurovegetativi, ragione per cui nel caso che uno dei due sistemi neurovegetativi, il simpatico o il parasimpatico, sia rimasto iperattivato, l’altro tende, dopo un po’, a “compensarlo” in modo da poter permettere ancora l’alternanza tra i due sistemi neurovegetativi.

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Lo stress

Una grande attivazione del simpatico tende a essere compensata da una reattiva grande attivazione del parasimpatico; viceversa una grande attivazione del parasimpatico tende a essere compensata da una reattiva grande attivazione del simpatico.

Anche intuitivamente si può immaginare come sia difficile il passaggio da qualcosa di molto alto a qualcosa rimasto ad altezza normale, per avere il passaggio ambedue devono essere allo stesso livello e se ciò che è salito non scende, ciò che è rimasto normale salirà al livello dell’altro per permettere il passaggio. Il risultato è che i due anziché essere rilassati e tranquilli tendono a ergersi in contrapposizione l’uno contro l’altro, con grande dispendio di energia: questa condizione viene definita “stress”.

D’altronde, la parola inglese “stress” deriva originariamente dal linguaggio architettonico e sta a indicare la controspinta che una qualunque struttura, come un mezzo arco o una mezza volta, richiede per poter rimanere in piedi. Un mezzo arco, grande o piccolo che sia, per sopravvivere necessita di una controspinta uguale a quella che lui esercita, ma di direzione opposta. In modo analogo all’immagine del mezzo arco, ognuno dei due sistemi neurovegetativi per sopravvivere necessita di una controspinta uguale alla propria da parte dell’altro sistema neurovegetativo.

La parola “stress” sta a indicare la contemporanea grande attivazione di ambedue i sistemi neurovegetativi a seguito della compensazione reattiva di uno dei due sistemi alla grande attivazione non scaricata dell’altro.

Quando invece quel sistema neurovegetativo attivato nell’evento ha modo di scaricarsi, non c’è bisogno che l’altro sistema si attivi per compensare. Potremmo dire che i due sistemi restano “rilassati”, con poco dispendio di energia. Così nell’equilibrio tra i due sistemi neurovegetativi si ha un facile passaggio tra il simpatico e il parasimpatico, o viceversa tra il parasimpatico e il simpatico.

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Le dipendenze

Se il sistema neurovegetativo non arriva all’autoregolazione, due possono essere le vie per sopravvivere: lo “stress”, di cui abbiamo già parlato, e la “dipendenza”. Quest’ultima interviene sul sistema neurovegetativo per regolarlo, ma dall’esterno.

Si può essere dipendenti da sostanze esogene, ad esempio: dalla pastiglia di calmante, dallo psicofarmaco, dal tabacco, dall’alcol, dalle così dette droghe. La dipendenza porta a una modificazione del funzionamento del sistema neurovegetativo e della fisiologia del corpo umano. Sono da considerare in questa categoria anche tutti quei comportamenti alimentari che portano alla dipendenza, ad esempio eccesso di zuccheri, di carboidrati, di patate, di grassi, di glutammati, ecc..

Non solo comportamenti che implicano l’assunzione di sostanze, ma anche comportamenti esistenziali possono modificare il funzionamento del sistema neurovegetativo e della fisiologia del corpo umano diventando così delle dipendenze.
Sono i così detti comportamenti compulsivi che possono riguardare i più diversi aspetti dell’essere umano, dalla sessualità all’attività fisica o lavorativa, per non parlare dei rapporti affettivi. Vi sono persone che in qualche modo sentono la necessità di stravolgersi con eccesso di lavoro o di fatica fisica, o che si sentono appagate solo nel continuo mettersi in pericolo in sport estremi. Anche la spasmodica ricerca affettiva può essere una dipendenza, come d’altronde sono da considerare dipendenze la ricerca di emozioni indotte da situazioni esterne, come ad esempio la visione di film thriller o dell’orrore, oppure programmi di vacanza e di tempo libero che aumentano la fatica esistenziale.

In ultima analisi, il comportamento che porta alla dipendenza, qualunque essa sia, agisce sul sistema neurovegetativo traumatizzato permettendogli una regolazione che può essere utile nell’immediato, però continuare questo comportamento vuol dire diventarne dipendenti e sul lungo si paga a ben caro prezzo.

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Elaborare il trauma

Secondo gli studi di Peter Levine e Laurence Heller

Una situazione di equilibrio tra i due sistemi neurovegetativi e di fluidità di passaggio dall’uno all’altro dà una sensazione di appagamento e di soddisfazione, ovvero attiva i movimenti extrapiramidali, come ad esempio quelli della mimica facciale e dell’equilibrio posturale, e tutte quelle funzioni regolatorie viscerali le cui fibre nervose costituiscono il vago ventrale.

Sebbene il nervo vago si componga del vago dorsale, prospiciente la parte dorsale del corpo e in cui passano le fibre del parasimpatico, e del vago ventrale, prospiciente la parte ventrale del corpo e in cui passano le fibre deputate all’appagamento e all’autoregolazione, a volte nel linguaggio corrente si dice “attivazione del nervo vago” o anche “attivazione vagale” per intendere l’attivazione soltanto del parasimpatico, sarebbe più esatto dire “attivazione del vago dorsale”, perché il vago ventrale è deputato a tutt’altra funzione.

L’attivazione del vago ventrale è strettamente connessa con l’appagamento, la soddisfazione, i movimenti extrapiramidali e con l’attivazione dei neuroni a specchio, posti nei lobi frontali degli emisferi celebrali, deputati alla socializzazione. Si attiva quell’insieme di risposte di appagamento e di soddisfazione che sono la conseguenza di eventi non vissuti come trauma, ma vissuti come arricchimento dell’esperienza.

La fluidità di passaggio tra i due sistemi neurovegetativi simpatico e parasimpatico permette di attraversare qualunque evento della vita sentendo in modo corretto l’emozione a esso connessa, ovvero la percezione e l’espressione di una emozione necessita anche di tale fluidità.

Tutta la vita dell’uomo è connessa con le emozioni: dagli eventi della quotidianità, come ad esempio l’improvviso scattare del semaforo rosso, mentre sto transitando a tutta velocità, con tutta la serie di risposte che dovrebbe attivare, alla telefonata che comunica una brutta notizia.

Il distacco è fonte di emozioni da percepire e da esprimere. Perché ciò possa avvenire al meglio si richiede una buona fluidità di passaggio fra i due sistemi neurovegetativi. Se questa fluidità di passaggio non può avvenire per la grande attivazione che residua in uno dei due sistemi neurovegetativi, il distacco sarà un evento traumatico.

Il trauma che, come abbiamo già detto, in greco antico vuol dire “ferita”, può come quest’ultima per così dire incancrenirsi, soprattutto quando il trauma si ripeta in modo simile nel tempo o quando sia stato trascurato e non debitamente curato. Elaborare un tale trauma è cosa complessa che necessita di tempo e di una strategia idonea, per cui il consiglio è di farsi aiutare da uno specialista.

Ogni trauma ha caratteristiche specifiche, perché s’inserisce nel vissuto individuale e irripetibile della persona. Pur tuttavia vi sono elementi e indicazioni comuni a tutti i traumi per la loro elaborazione.

Quando entriamo nella zona trauma e nel suo ricordo, il sistema neurovegetativo tende a perdere la fluidità di passaggio tra simpatico e parasimpatico.

Il sistema neurovegetativo per poter ripristinare la sua fluidità necessita, se vogliamo usare un’immagine, di più spazio e di più tempo. È come se il trauma fosse stato causato da un evento che ha la caratteristica, per dirla con una parola di Peter Levine grande specialista della terapia del trauma, di essere vissuto come “troppo”: o “troppo” come quantità o intensità e/o “troppo” veloce nel suo svolgimento e/o “troppo” presto, quando non si è ancora pronti.

Un semplice esempio, ma che rende l’idea, è mangiare un cibo di buona qualità ma o troppo come quantità e/o troppo in fretta e/o troppo presto quando non si è ancora pronti per digerirlo. Può sembrare paradossale, ma si può morire anche di indigestione.
A evento avvenuto c’è bisogno di dare più spazio per contenere e più tempo per elaborare l’evento traumatico. Tornando all’esempio del cibo: slacciarsi la cintura, spaparanzarsi in poltrona, prendersela con calma rimandando pensieri, parole e opere troppo impegnativi a digestione avvenuta.
Dare spazio e tempo vale per tutti i traumi, compresi quelli connessi con il distacco.

Il trauma, come abbiamo detto, è conseguente alla grande attivazione che residua in uno dei sistemi neurovegetativi, simpatico o parasimpatico, a seguito di un evento ed ha conseguenze non solo sul sistema neurovegetativo stesso, ma anche sugli stati emozionali, sulla psiche e sul fisico.

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Felt sense

Elaborare il trauma non è connesso col fare né con l’immaginare, ma col “sentire”, cominciando col sentire il proprio fisico.

Si devono sentire le proprie sensazioni fisiche sentendo quello che c’è da sentire, scusate il gioco di parole ma è il modo col quale cerco di tradurre l’espressione americana “felt sense”, e dando lo spazio e il tempo necessari a questo sentire, senza rifiutarlo. Rimanendo in questo sentire fisico, sentire se vi sono emozioni e pensieri a esso connessi. Poi, sempre rimanendo sulla sensazione fisica, sentire come essa evolva. Quello che a seguito del trauma sentiamo nel nostro corpo, come ad esempio una contrattura, dipende da un eccesso di energia rimasta nel sistema neurovegetativo e non scaricata. Attraverso il “felt sense” questa energia anziché rimanere bloccata in un punto, come capita nel trauma, può finalmente fluire nel nostro corpo. Facendo l’esempio del cibo, l’eccesso di nutrimento nello stomaco è pur sempre nutrimento che, se gli si lascia il tempo e lo spazio, può fluire sotto forma di nutrimento nel corpo.

Poiché il trauma è caratterizzato da una grande attivazione di uno dei due sistemi neurovegetativi, tale grande attivazione può provocare, ad esempio, una contrattura in una parte del corpo, oppure una anestesia. Siccome il trauma è dovuto a una grande attivazione di uno dei due sistemi neurovegetativi non scaricata, la sua elaborazione consiste nel lasciar fluire questo eccesso di attivazione. Come? Mentre si sente quella parte del corpo in cui vi sono sensazioni, contemporaneamente sentire tutto il resto del corpo e sentire come quella sensazione può evolvere e fluire nel corpo. Facciamo l’esempio di sentire una contrattura in una parte del corpo: solitamente quelle localizzate alla testa, al collo e alle spalle fluiscono nelle braccia, negli avambracci e nelle mani, quelle al torace e all’addome fluiscono nelle gambe e nei piedi. Questo fluire può essere sotto forma di calore, di tremito, di brivido, di sensazione di “formiche”, di movimenti involontari o quant’altro. Una volta che questo fluire si è aperto verso altre parti del corpo, si è scaricata parte di quell’eccesso di energia causata sul fisico dal sistema neurovegetativo.

In ultima analisi abbiamo scaricato un po’ della grande attivazione che residua in uno dei sistemi neurovegetativi, simpatico o parasimpatico, per cui la capacità di fluidità fra questi due sistemi neurovegetativi è un po’ migliorata.

Potremmo dire che dando tempo e spazio alle sensazioni del corpo, acquisiamo poco alla volta una capacità di autoregolazione del sistema neurovegetativo.

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Titolazione

Elaborare il trauma consiste nel dare tempo e spazio alle sensazioni che provengono dal corpo e nel dare tempo e spazio al ricordo del trauma, poco alla volta, cominciando dalle cose piccole. Si tratta di digerire il trauma, ovvero digerire il/i “troppo”: o troppo come quantità e/o troppo veloce e/o troppo presto.

Per digerire bisogna procedere a piccoli bocconi, cominciando da quelli più facili da digerire, e lasciare a ogni boccone il tempo per lui necessario a essere smaltito. Questo nel gergo tecnico dei terapisti del trauma è chiamato “titolazione”, parola presa dal linguaggio dei chimici, che letteralmente vuol dire far cadere un liquido con il contagocce, poco poco alla volta, contando le gocce una ad una, non certo buttandolo dentro tutto assieme. Per fare un esempio culinario, prendersi cura del proprio trauma è come fare la maionese in cui c’è bisogno di aggiungere l’olio goccia a goccia, altrimenti se si butta l’olio tutto assieme la maionese impazzisce.

Così pure nell’elaborare un trauma bisogna procedere a piccoli passi altrimenti si rischia l’effetto opposto: quello di ritraumatizzare ancora di più la persona. Poco alla volta, sentendo il fisico e “titolando” il ricordo di quella situazione che era stata traumatica, si riacquista fluidità nell’alternanza del sistema neurovegetativo, ovvero si elabora il trauma.

Questo vale anche per i traumi di distacco e di abbandono.

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Autoregolazione del sistema neurovegetativo

L’autoregolazione del sistema neurovegetativo è anche facilitata da una buona interconnessione fra i due emisferi cerebrali.
Questa di conseguenza facilita l’elaborazione del trauma già instaurato o rende meno probabile lo strutturarsi come trauma dell’esperienza presente.

L’interconnessione fra i due emisferi cerebrali avviene in quella parte del cervello chiamata “corpo calloso” che unisce i due emisferi.
Gli emisferi cerebrali, relativamente ai movimenti volontari, comandano ognuno il lato a lui opposto: l’emisfero destro il lato sinistro del corpo e l’emisfero sinistro il lato destro del corpo. Ne consegue che per fare movimenti volontari ampi e ben coordinati tra lato sinistro e lato destro, è necessaria una buona coordinazione tra i due emisferi.

La comunicazione tra gli emisferi cerebrali è potenziata dai movimenti volontariamente amplificati e incrociati degli arti superiori e inferiori, non dai semplici movimenti ritmici e automatici. Questo avviene per esempio in quello che è chiamato il “passo romano”, usato dalle legioni romane come passo da battaglia. Pare che uno dei motivi della superiorità militare romana fosse l’equilibrio che tale passo dà nella fluidità del sistema neurovegetativo che permette una buona fluidità emozionale, rendendo per esempio più improbabili le crisi di panico. Se non si vuole fare il passo romano può essere già buona cosa camminare ad andatura sostenuta accompagnando il movimento della gamba con un volontario e ampio movimento del braccio controlaterale, non con il semplice pendolamento automatico e involontario del braccio. Anche toccarsi o lasciarsi toccare ritmicamente in modo alternato parti del corpo controlaterali, come ad esempio alternativamente il ginocchio destro e il ginocchio sinistro, può essere d’aiuto per migliorare la comunicazione tra gli emisferi.

Non solo i movimenti relativi agli arti, ma anche quelli degli occhi facilitano la connessione tra gli emisferi, ad esempio guardare muovendo da destra a sinistra e viceversa gli occhi, con ampi movimenti, tenendo ferma la testa.

Il “felt sense”, la “titolazione”, il miglioramento della connessione interemisferica cerebrale possono essere usati da ognuno di noi per aiutare a scaricare l’eccesso di energia rimasta nel sistema neurovegetativo a seguito di un evento che può essere anche di distacco. Questo è aiutare il nostro organismo a trovare la propria “autoregolazione”.

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La risonanza

Vi sono prove scientifiche che il sistema neurovegetativo di una persona tende ad andare in risonanza col sistema neurovegetativo di un’altra persona presente.

Facciamo l’esempio di una persona che stia raccontando a un’altra la propria esperienza di distacco vissuta con le connotazioni del trauma. Il sistema neurovegetativo di chi racconta sarà iperattivato o nel simpatico o nel parasimpatico e anche il sistema neurovegetativo di chi ascolta tenderà per risonanza ad attivarsi in modo analogo. Se chi ascolta non è in grado di autoregolarsi, portando il proprio sistema neurovegetativo a essere di nuovo fluido, si rischia che la comunicazione fra le due persone, per effetto della risonanza, non soltanto non porti beneficio a nessuno dei due, ma sia ritraumatizzante per chi racconta e causi trauma nell’ascoltatore. Se invece chi ascolta è in grado di autoregolarsi, per risonanza aiuta chi racconta ad autoregolarsi, cosa che sicuramente è di beneficio per quest’ultimo. In questo caso ha beneficio non solo chi racconta, ma anche chi ascolta, perché può fare tesoro dell’esperienza altrui. Per ottenere ciò bisogna che ambedue le persone siano presenti al “felt sense”, ovvero al sentire nel proprio corpo, e che il racconto sia “titolato”, diluito a piccole gocce, e che ogni goccia venga lasciata cadere solo dopo che la precedente si sia disciolta.

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Un po’ d’umorismo aiuta